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Riflessioni sulla internazionalizzazione

di Marco Trisciuoglio (Dipartimento di Architettura e Design).


In Africa con la Cina

In una mattina di metà dello scorso novembre, lasciando la sede del Ministero cinese della Scienza e della Tecnologia (MOST) in Fuxing Road, sotto un cielo inusitatamente terso per una giornata del tardo autunno pechinese, ho raccolto mentalmente alcuni appunti che provo a rielaborare qui, nella speranza che possano tornare utili per costituire un frammento di agende future, se non per disegnare nuove praticabili prospettive.
L’incontro da cui uscivo era bilaterale: il ministero cinese e il nostro Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI, il corsivo è mio) ospitavano insieme la verifica dello stato di avanzamento del Programma esecutivo di Cooperazione scientifica e tecnologica tra Italia e Cina per il periodo 2016-2018. Avevo presentato, dinnanzi a uno dei Direttori del Centro per gli scambi scientifici e tecnologici del MOST, Xu Jiajiun, e ai nostri addetti tecnico-scientifici dei Consolati di Shanghai e Congqing, rispettivamente Roberto Pagani e Lorenzo Gonzo, il progetto che il Politecnico di Torino ha in corso con la Luoyang Normal University.
Soprattutto, però, avevo potuto seguire, da un osservatorio privilegiato e defilato allo stesso tempo, quanto una serie di centri di ricerca in Italia e in Cina stessero facendo insieme (一起, yīqǐ, come dicono in Cina) nel nome della cooperazione internazionale: era in definitiva molto, esito di grandissimo sforzo, di evidenti difficoltà non sempre superate, di grande passione, spesso con articolate strategie di scambio di personale, di co-authorship di pubblicazioni, anche di finanziamenti ulteriori, cercati strenuamente e in ogni direzione in stretta collaborazione. Molti dei gruppi sino-italiani davano mostra di conoscersi molto bene e di conoscere profondamente le rispettive culture.

In occasioni diverse ho incontrato Roberto Pagani e Lorenzo Gonzo su questi temi e so che per entrambi l’idea di “cooperazione” va molto oltre quanto stabilisce il sito della Farnesina quando parla di Diplomazia Economica Italiana, o meglio nella missione di “aprire i mercati internazionali all’Italia e l’Italia al mercato mondiale” attraverso il sostegno alle imprese, il coordinamento e la promozione di iniziative di internazionalizzazione, l’informazione e l’analisi economica e geopolitica. Cooperare nella ricerca scientifica e tecnologica, per una università pubblica come il Politecnico, significa studiare insieme, insegnare insieme, impiantare laboratori di ricerca congiunti.
E la Cina? Come può essere possibile tutto questo in quel Paese? Uscendo dall’incontro al MOST, mi sono chiesto quali passi si potessero compiere per la costruzione di vere forme di collaborazione, che andassero oltre un’internazionalizzazione correntemente intesa come seriale sottoscrizione di accordi, spesso senza reali esiti o dalle complicatissime fasi esecutive.

Qualche settimana più tardi, leggendo sulla rivista dell’Aspen Institute Italia gli estratti dell’ultimo rapporto China Dashboard (il progetto congiunto dell’Asia Society Policy Institute e del Rhodium Group che dal 2015 monitora le riforme cinesi, su esplicita richiesta del premier Li Keqiang) ho compreso ancora una volta come noi tutti che a titolo diverso lavoriamo in (con e su) la Cina, ci muoviamo in un contesto non fermo, ma in costante evoluzione. Le riforme, soprattutto in economia, ci sono ma sono caute, mentre accelera l’innovazione, trainata da un sistema industriale che fatica però nella doppia marcia tra aziende private e aziende di stato.

Il primo, fondamentale passo che dobbiamo cominciare a fare è quello di conoscere di più e meglio quel Paese, con la consapevolezza che una conoscenza compiuta e definitiva non sarà mai possibile. La Cina è un mondo che per certi aspetti, ad esempio morali o antropo-culturali, non cambia mai, mentre per altri aspetti, strutturali, di competenze e di prospettiva, si trasforma velocemente, cambiando pelle e orizzonte ogni sei mesi. I grandi progetti “globali” come Belt and Road Initiative (il ben noto e colossale collegamento anche infrastrutturale della Cina all'Europa e all'Africa Orientale) o come il sogno governativo della realizzazione di una banca centrale asiatica (in grado di competere con le omologhe banche continentali di Europa e Stati Uniti) vanno commisurati a una società complessa, ipertecnologizzata, paradossalmente non completamente aperta (nel senso popperiano/liberale) e al contempo totalmente dominata dalle telecomunicazioni e da internet. La BAT-generation che orienta il mercato cinese oggi lega il suo nome a tre colossi tecnologici, Baidu-Alibaba-Tencent, rispettivamente i Google, Amazon e facebook locali.

Allo stesso tempo il ruolo della tradizione (传统, chuántǒng, non il ruolo della storia quindi, ma il lento tramandarsi di usanze e credenze nel tempo con un continuo rinnovamento) emerge oggi prepotentemente. Era stata la vera anima delle proteste di Hong Kong nel 2014 (la cosiddetta “rivoluzione degli ombrelli”) ed è oggi uno dei capisaldi della politica di Xi Jinping (“Making history. The communist Party is trying to redefine what it means to be Chinese “ intitolava una corrispondenza dallo Shandong sulle pagine del The Economist lo scorso agosto).

La Cina di oggi, rispetto a cinque o dieci anni fa, si aspetta dall’Europa competenze specifiche e idee da sviluppare in cooperazione, attraverso i suoi sofisticati laboratori dalle dotazioni straordinarie, per avviarle a una macchina produttiva imponente nella quale l’Europa potrebbe ancora giocare un suo ruolo, ancora adoperando competenze e idee che fanno parte delle nostre tradizioni di studio e di lavoro. Non comprendere questo o comprenderlo senza agire di conseguenza, rinsaldando cioè soprattutto un’idea forte di cooperazione internazionale, è un peccato che rischia di essere mortale.

Se vogliamo davvero fare della Cina il core delle nostre politiche internazionali, dobbiamo impegnarci nel capire una mentalità radicata e uno scenario contingente. E in questa azione noi abbiamo un grande vantaggio, rappresentato dai “nostri” Cinesi: assegnisti, dottori e dottorandi (ma anche studenti magistrali) che potremmo cominciare a non considerare soltanto come studiosi in formazione o di passaggio nel nostro Paese. Possono essere autentici “ponti” verso la Cina e, in un futuro che è già presente, i nostri inviati in quelle università, quelle aziende, quelle città e quelle provincie, per la costruzione di nuove prospettive comuni di ricerca da collocare persino in altre aree geografiche.

Una collega della Southeast University di Nanjing (importante università tecnica pubblica di quel Jiangsu che è la provincia cinese più avanzata nello sviluppo e nella produzione di tecnologie, nonché sede della scuola di architettura oggi al primo posto nei ranking nazionali) amava ripetermi: “Perché dobbiamo siglare un accordo? Stiamo lavorando insieme, continuiamo a farlo, sempre di più, raggiungiamo degli obbiettivi e pubblichiamoli, a quel punto sigleremo ogni accordo con più facilità e più felicità”.

È venuto finalmente il tempo degli accordi ex-post e li stiamo siglando oggi, dopo aver insegnato insieme, dopo aver avviato in tre anni un’unità di ricerca comune su un tema che intreccia tradizione e progresso (metodologie italiane e temi di ricerca cinesi), dopo aver scelto di contribuire, insieme, a un centro di ricerca dell’MIT a Nanjing. Adesso, a partire da quanto pubblicato e progettato insieme, cominciamo a esplorare possibilità congiunte di ricerca in Tanzania o altrove nella regione centroafricana. Sappiamo però che da soli non ce l’avremmo mai fatta e che è stata fondamentale, in questi anni, la strenua collaborazione dei nostri PhD, dottorati a ScuDo e con borsa “governativa” del China Scholarship Council (CSC).


L’altro lato dell’Internazionalizzazione 4.0

L’internazionalizzazione è uno dei temi cardine di quella Diplomazia Economica Italiana (link) che la Farnesina, almeno nella legislatura appena conclusa, considera una delle sue principali missioni: “aprire i mercati internazionali all’Italia e l’Italia al mercato mondiale”, attraverso il sostegno alle imprese, il coordinamento e la promozione di iniziative appunto di internazionalizzazione, l’informazione e l’analisi (economiche e geopolitiche).

In questa missione l’università pubblica italiana e in generale il mondo della ricerca (quella scientifica e tecnologica in testa) rivestono un ruolo importante, che però dovrà riuscire a farsi, nei fatti oltre che nei proponimenti, strategico e non solo di supporto.

In questo quadro, il Politecnico ha carte importanti da giocare, ma dovrà comprendere che è il momento di passare a una fase totalmente nuova, da costruire sopra i risultati ottenuti fino a questo momento soprattutto attribuendo nuovo significato, nel campo della didattica, della ricerca e del trasferimento tecnologico, a quel termine “Cooperazione internazionale” che fa parte della titolazione completa del nostro dicastero degli esteri.
Dopo l’apertura ai rapporti internazionali di qualche anno fa, a largo raggio e forse a tratti disordinata o compulsiva, ma molto vivace e salutare in qualche modo per il nostro sistema, il nostro ateneo ha trascorso gli ultimi anni a organizzare, ri-definire, consolidare alcune posizioni, con una certa predilezione, ovvia e storica, per i Paesi cosiddetti emergenti. Abbiamo lavorato a progetti didattici e di ricerca nel continente asiatico (Cina in testa), nei Paesi dell’America Latina e -in maniera forse ancora molto defilata, se non marginale- nel pur molto promettente universo africano. Ben diverso è stato il lavoro nel cosiddetto “nord del mondo”: se in Europa ci aiuta l’essere parte di un consolidato sistema di reti (i programmi quadro per la ricerca o il progetto Erasmus), con gli Stati Uniti e il Canada lavoriamo a partnership nella ricerca mentre non siamo in grado di essere realmente attrattivi e di generare veri e propri corridoi di scambio di studenti come invece avviene con le altre realtà (certo ciò avviene anche per ragioni di tuition fee, che non sono comunque insormontabili).

Che cosa è accaduto in definitiva? Nella didattica abbiamo aperto le nostre aule al mondo (facendoci sempre scegliere dagli studenti e mai scegliendoli, a tutti e tre i livelli d’insegnamento). Nella ricerca e nella terza missione, invece, abbiamo individuato collocazioni geografiche precise e puntuali/puntiformi, non soltanto presso atenei esteri, ma anche negli stessi mercati della ricerca sui quali quegli atenei nostri partner insistevano.

Questa fase, necessaria e importante, si porta dietro però oggi delle criticità. La mancata selezione degli studenti ha provocato problemi di logistica e in taluni casi di abbassamento del livello della didattica, mentre una politica d’internazionalizzazione fondata sul posizionamento unilaterale (collocarsi in un mercato e in una cultura senza davvero conoscerli) ha spesso rischiato di causare ritardi e intoppi nel progresso delle missioni scientifiche.
Ognuna di queste criticità, tuttavia, costituisce in prospettiva un punto di forza: abbiamo studenti stranieri anche molto bravi, al livello magistrale e dottorale, abbiamo compiuto comunque primi importanti passi nella costruzione di reti internazionali, abbiamo creato i nostri primi anchor point.

Oggi però occorre pensare non tanto o non solo a una moltiplicazione di deleghe per aree geografiche, ma a un vero e proprio salto di paradigma nella strategia di internazionalizzazione del Politecnico che oggi deve (anzi può, se lo vuole):

  • operare per azioni di cooperazione internazionale nella ricerca (lavorare con un altro Paese, invece che in un altro Paese), costruendo reali partnership aperte e a sistema con gli atenei più importanti con i quali già esistono accordi, anche per operare insieme in altre realtà economiche (lavorare in Africa con la Cina è in questo senso una prospettiva oggi possibile e praticabile);
  • ealizzare azioni di vera e propria intelligence nei Paesi emergenti, utilizzando i migliori tra i nostri studenti di master incoming, assoldandoli nella nostra scuola di dottorato e facendoli crescere come nostri inviati presso i paesi esteri, implementando e favorendo le nostre unità di ricerca con studiosi di diversa nazionalità, bilingue e dalla doppia cultura di base;
  • investire nella costruzione, a partire dal nostro incubatore di imprese, di specifiche competenze economiche e sociali, ma soprattutto politiche e finanziarie in grado di consentirci di lavorare effettivamente in mercati che non conosciamo, finalmente in termini di business plan e non solo “a progetto”;
  • ri-aprire da subito finalmente un nostro ufficio di Bruxelles, magari nella nuova Casa Italia (non solo fisicamente, ma con un mandato fortemente politico e legato al ruolo del Politecnico sul territorio regionale e nazionale) anche in vista delle decisioni che nei prossimi mesi si prenderanno per la formulazione del IX Programma Quadro della Ricerca Scientifica e Tecnologica (il post-Horizon 2020).

Gaetano Fausto Esposito, Segretario Generale di Assocamerestero ed esperto di analisi economica e dei processi di internazionalizzazione delle imprese, ha cominciato a parlare proprio in questi giorni di “Internazionalizzazione 4.0” (link), dove lo sviluppo internazionale si compone anche attraverso la valorizzazione di competenze locali e globali, per "mettere a valore" tutte le risorse e le abilità esistenti sui territori del mondo.

È sull’altro lato, quello tecnico e scientifico, di questa prospettiva che noi potremmo operare azioni di rilevante importanza, proprio attraverso il necessario salto di paradigma nella nostra strategia di internazionalizzazione.